Santuario Madonna d’Itria-Cirò Marina (Crotone)
Si narra inoltre che, quando nel lontano Impero d’Oriente (in seguito all’editto di Leone III detto l’Isaurico, emanato nel 726 d.C.) un’armata di soldati aveva il compito di distruggere qualsiasi immagine sacra, un manipolo di soldati, colpiti dalla bellezza di una statua raffigurante la Madonna ed avendo deciso di non distruggerla, dopo averla recisa in due parti, avessero deposto il busto della Madonna in una cassa di cedro gettandola in mare per evitare la rappresaglia dei loro superiori. In seguito, a Cirò Marina, una giovane, andata a raccogliere la legna, incontrò un vecchio che le disse di avvisare la madre e il sacerdote della zona, a quel tempo don Martino, di recarsi ad una spiaggia chiamata “fossa del lupo” per recuperare una cassa con un’immagine della Santa Vergine. Il giorno seguente si ripeté la stessa scena e la ragazza, colpita da un attacco di apoplessia e rinvenuta a fatica, raccontò tutto alla madre e al frate che, recandosi nel luogo indicato, incontrarono due eremiti che li aiutarono a recuperare la cassa; i due scomparvero immediatamente dopo. La struttura, che apparteneva anticamente all’ordine dei Templari, ha subito numerosi restauri a causa dei frequenti terremoti che si sono susseguiti in Calabria.
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18 commenti in “Santuario Madonna d’Itria-Cirò Marina (Crotone)”PICCHIATO UN PARROCO NELLA DIOCESI DI FIRENZE PERCHE’ AVEVA INIZIATO AD ELIMINARE GRADUALMENTE GLI ABUSI LITURGICI (E LA MESSA DI SAN PIO V NON C’ENTRA)
Aveva ripreso a celebrare la Messa sull’altare anziché sul tavolino del predecessore, eliminati i canti non consoni recuperando quelli in latino ed invitato i fedeli a comunicarsi in ginocchio e sulla lingua, seguendo l’esempio di Benedetto XVI
di Dante Pastorelli
È bene sgomberare il campo da un equivoco generato dal sensazionalistico titolo dell’articolo (…) sul Giornale di Firenze del 26 luglio u.s., “No alla Messa in Latino. Parroco picchiato a Ronta”. (…) La Messa di S. Pio V qui non c’entra per niente. (…)
Allora, quali i motivi del contendere alla base del caso mugellano? Un gruppo di fedeli più “attivi”, una decina, ed i loro sostenitori, in tutto al massimo una ventina su una popolazione di oltre 1400 anime, erano abituati a fare e disfar a piacimento in chiesa e nei locali annessi, compresa la libera affissione in bacheca di manifesti, volantini e comunicati di vario contenuto, giacché il precedente curato risiedeva in un paese vicino ed a Ronta si recava solamente per le celebrazioni eucaristiche e per gli altri principali doveri pastorali.
Costoro, avendo goduto di libertà assoluta d’azione in un lungo periodo di parziale sede vacante parrocchiale, si son sentiti spodestati, privati di un “potere” illegittimamente arrogatisi, dal nuovo parroco, don Hernan Garcias Pardo, che da meno di un anno è stato incaricato della guida della comunità, ha fissato la sua residenza nella canonica di Ronta ed esige, comprensibilmente, di far quel che la Chiesa gli richiede.
Da una parte, dunque, il sacerdote laborioso e cosciente dei suoi compiti, dall’altra gli esponenti di un progressismo esasperato al limite, forse superato, di un’ecclesiologia da comunità di base che vogliono imporre e, di conseguenza, dettar legge in ambito liturgico e catechetico. Da qui l’accusa infondata al loro Pastore di non ascoltare il suo popolo.
Don Hernan, ch’è italo-argentino, e mi vien descritto da un confratello come un uomo cordiale, gentile, disponibilissimo e d’animo mite, e ratzingeriano di ferro, s’è impegnato a riportar un po’ d’ordine nella casa di Dio e nella canonica, alcuni locali della quale, separati dall’abitazione da una porta, da tempo trasformati in una specie di circolo fastidioso, in quanto rumoroso, noto per gl’incontri conviviali, e causa di attriti, oltre che per il frastuono, anche per la volontà del sacerdote di utilizzarli per ospitar una degna sacristia e l’archivio: insomma per reali necessità della parrocchia, non esclusa la salvaguardia di antichi e preziosi paramenti amorevolmente recuperati dalle soffitte in cui erano stati desolatamente abbandonati. Inoltre, in perfetta ottemperanza alla volontà di Benedetto XVI, oltre che al buon senso, il neo-parroco ha iniziato ad eliminar gradualmente gli abusi liturgici.
Don Hernan ha così rimosso dal presbiterio del Santuario della “Madonna dei tre fiumi” la mensa posticcia, un tavolino, applicando correttamente la normativa vigente in materia, onde consentire la celebrazione all’altare e ad Deum; ha riportato serietà nell’azione liturgica, abolendo ogni cialtroneria ed i canti non consoni, chitarre e strumenti profani, ed ha paternamente invitato il suo gregge, senza obbligarvelo, a comunicarsi in ginocchio e sulla lingua, seguendo evidentemente l’esempio offerto da Benedetto XVI; ha reintrodotto la benedizione iniziale dei fedeli con l’acqua santa e qualche canto in latino, tra cui la Salve Regina, che spesso nella lingua sacra della Chiesa Cattolica, si canta anche nella Basilica fiorentina della SS.ma Annunziata, regno incontrastato della liturgia in volgare.
Nella chiesa parrocchiale di S. Michele, una Badia non “orientata”, la S. Eucaristia vien celebrata verso il popolo, ma nello stesso tempo verso oriente, come nelle basiliche romane, e, sempre sulla scorta della liturgia pontificia attuale, sull’altare ritrovano il loro posto i candelieri ed il Crocifisso. Altare? Diciamo una mensa costruita nel post-concilio, dopo che il parroco dell’epoca, mons. Basetti Sani, di non felice memoria anche per i fedeli di S. Francesco Poverino, nella sua furia iconoclasta ebbe distrutto il settecentesco altar maggiore ed eliminato gli altari laterali.
Da rimarcare che don Hernan ha sempre in tutto operato con l’approvazione piena del benemerito Arcivescovo di Firenze, S. Ecc.za mons. Giuseppe Betori.
Tutto qui: sembra poco, ma ad uno sparuto manipolo di fedeli (?) scriteriati, questo “poco” appar un’intollerabile cedimento al più vieto “tradizionalismo” da perseguir con pubblica ribellione, manifesti insultanti e lettere minatorie da non sottovalutare. Infine, a buon diritto, il prete ha esposto nel cosiddetto circolo un cartello col divieto di affigger manifesti e comunicazioni senza la sua autorizzazione.
Da qui il contrasto, in realtà unilateralmente prodotto: tipico esempio della degenerazione della funzione dei laici nella Chiesa, a cui le Autorità competenti ancora non pongono fine. E proprio dal divieto di libera affissione è nata un’accesa discussione, trasformata dal contestatore prepotente in vergognosa rissa, con contorno di contumelie alla presenza dell’atterrita e piangente anziana madre di don Hernan, della sua esile sorella, spintonata senza remore dall’energumeno, e di qualche testimone. Lo scalmanato novatore, alto e robusto come un armadio, benché anzianotto, ha staccato irosamente l’avviso, ha afferrato e scosso violentemente il sacerdote colpevole d’essersi opposto a tal atto d’arroganza, gli ha strappato dei documenti e l’ha inseguito fin nella canonica dove s’era rifugiato per por termine allo scontro fisico. Risultato del “corpo a corpo”: il parroco ha riportato una contusione alla spalla, con prognosi di tre giorni. Ambedue i protagonisti della colluttazione si sono rivolti all’Arma dei Carabinieri, ma chiunque può comprender agevolmente da qual parte stia la ragione. (…)
Mi dichiaro sicuro, e n’ho ben d’onde, che il coraggioso sacerdote, cui va la mia filiale solidarietà, continuerà nel suo cammino verso una liturgia sempre più improntata alla doverosa sacralità, come son pure sicuro ch’egli, innamorato com’è di Cristo e della Chiesa, ed obbediente ai superiori, saprà perdonare, e credo che già l’abbia perdonato, l’aggressore, e paternamente riaccoglierà tra le sue braccia i fedeli dissidenti, poiché egli tutti ha sempre chiamato amorevolmente intorno a sé e nessuno dalla comune casa di preghiera e santificazione è mai da lui stato allontanato.
Da parte mia auspico una S. Messa di riconciliazione e di salda ricostruzione del tessuto ecclesiale di Ronta, ma nella chiara distinzione dei ruoli: Pastore saggio e docile gregge.
Fonte: Coordinamento Toscano Benedetto XVI, 27/07/201
Cosa pensare? Dove si vuole arrivare?
BUON ANNO NUOVO
A TUTTI !
.
… “La venuta del Cristo introduce nella vita degli uomini una legge nuova, quella dell’Amore, che tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Gesù ti invita ad andare oltre i tuoi schemi, ad uscire dalla tua logica tradizionale di giustizia. Metti via la bilancia, non pesare più gli altri e te stesso con il metro del giudizio. Cambia logica.
Appena una ventina di centimetri separano il cervello dal cuore eppure può trattarsi del viaggio più lungo della vita di una persona. Scendi dal cervello al cuore. Mettiti in viaggio. Non aspettare domani (o un altro anno ndr), perché ieri è passato e domani (è un altro anno ndr), il futuro: hai solo oggi per cominciare ad amare”..
TEMPO DI AVVENTO
All’inizio del tempo dell’Avvento, sarebbe bello se ognuno di noi segliesse di vivere nella sobrietà, recuperando i valori veri, proprio nel periodo in cui tutti aumentano le proprie spese, cedono al consumismo.
Sarebbe bello se ognuno di noi facesse un progetto che ci aiutasse ad arrivare a Natale con alcuni cambiamenti del nostro stile di vita, condividendolo con chi fa fatica a fare altrettanto.
Sappiamo, però, da buoni cristiani, che le difficoltà e gli ostacoli, se messi sotto l’azione prestigiosa della grazia, si trasforma, talvolta, in aiuti e cooperano meravigliosamente al bene.
Grazie, Zingo, gentilissimo. Si fa quel che si può.
Sarei oltremodo contento se il sito fosse visitato da altri.
Il Santuario deve essere valutato per quello che è: Un luogo di raccoglimento e di preghiera. Non tutti l’hanno capito.
Spero che da oggi, il sito sia visitato da altri.
Cordiali saluti.
Caro Conte versi bellissimi !
NON ARRENDERTI MAI.
Neanche quando
la fatica si fa sentire.
Neanche quando
il tuo piede inciampa.
Neanche quando
i tuoi occhi bruciano.
Neanche quando
i tuoi sforzi sono ignorati.
Neanche quando
la delusione ti avvilisce.
Neanche quando
l’errore ti scoraggia.
Neanche quando
il tradimento ti ferisce.
Neanche quando
il successo ti abbandona.
Neanche quando
l’incratitudine ti sgomenta.
Neanche quando
l’incomprensione ti circonda.
Neanche quanddo
la noia ti atterra.
Neanche quando
tutto ha l’aria del niente.
Neanche quando
il peso del peccato ti schiaccia.
Invoca Iddio,
stringi i pugni, sorridi e. . . . ricomincia.
Sarà considerato perfetto colui nel quale, opportunamente, si incontreranno queste tre cose: Il pianto dei propri peccati; La gioia di Dio, nonchè la disponibilità a venire in soccorso ai fraelli.
In questo modo piace a Dio, è prudente nei Suoi riguardi, è utile al prossimo.
(San Bernardo da Chiaravalle)
Sarebbe utile aprire un dibattito sui vari temi. E’ inutile, altrimenti, continuare a scrivere.
Chiedo scusa per l’arroganza e la superbia.
” Ecce quam bonum et quam iucundum
habitare fratres in unum ” (Salmo 133, 1)
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5,8)
Celebrare la solennità di tutti i santi ci porta a riflettere su tre aspetti della santità: è comprensibile che il nostro pensiero e la nostra meditazione si rivolga anzitutto, in questo giorno, ai fratelli e le sorelle che “glorificano in eterno il nome di Dio” (Prefazio del giorno) e che la Chiesa addita a noi come modelli e compagni nel cammino dell’esistenza, canonizzando uomini e donne, chierici e laici, religiosi e religiose che con le loro manifeste virtù hanno vissuto il Vangelo di Gesù Cristo nella loro esistenza.
Tuttavia, il libro dell’Apocalisse che oggi viene letto al capitolo 7, ci descrive la scena di un coro maestoso e sconfinato, di una “moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza popolo e lingua” (7,9). I confini della santità, dunque, non sono identificabili strettamente entro la cerchia, seppure ampia, di quanti vengono canonizzati ed elevati agli onori degli altari. A questa santità “ufficiale” si affianca la santità “quotidiana” descritta dal brano evangelico delle beatitudini: essa si incarna in tutti quelli che vivono già ora secondo la mentalità del Vangelo e sanno morire a se stessi per guadagnare il regno dei cieli. Questa santità è comune a tutti i battezzati i quali, in virtù del sacramento che hanno ricevuto, sono associati alla morte e alla risurrezione del Signore.
Nessuno è escluso da questa vocazione comune che la costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II, Lumen gentium, così esprime: “Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48)… I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi” (LG 40).
È ancora il libro dell’Apocalisse, infine, a suggerirci la terza ed ultima riflessione sulla liturgia odierna. Nel dialogo mistico che intercorre tra l’autore del testo sacro e il vegliardo che incontra, quest’ultimo afferma che la moltitudine appena vista è formata da coloro che “vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello” (Ap 7, 14).
Il candore delle vesti, segno esteriore della santità che caratterizza il popolo santo è una conseguenza dell’aver lavato le proprie vesti nel sangue dell’Agnello. Questa espressione chiarisce, dunque, qual è l’origine della santità che l’uomo non può donarsi da sé, ma che può solo accogliere quale dono da parte di Dio. La santità, in altri termini, ci è donata solo in virtù della nostra partecipazione al mistero di Gesù Cristo, l’Agnello immolato e risorto mediante il cui sangue siamo stati resi santi.
È forte qui il richiamo alla narrazione del Libro dell’Esodo del sangue dell’agnello posto sugli architravi delle porte perché l’angelo distruttore passasse oltre e non uccidesse i primogeniti degli Israeliti. Il nuovo Agnello santificatore è Cristo stesso e per mezzo del suo sangue la Chiesa è resa santa, immacolata.
Celebrare la solennità di tutti i santi è sì, dunque, celebrazione della Chiesa trionfante che già gode della visione di Dio, ma è anche celebrazione della Chiesa peregrinante quella fatta dagli uomini di buona volontà che nella loro vita vivono e testimoniano le beatitudini evangeliche.
Tutti insieme, “avvolti in bianche vesti ed attraversato il Mar Rosso cantiamo a Cristo Signore” (Inno dei II Vespri di Pasqua):
SANTI SIAMO ANCHE NOI
Chiamati a seguire l’Agnello immolato e risorto,
povero, casto e obbediente
noi ti lodiamo e benediciamo, Padre.
Rigenerati alla speranza
per costruire un mondo di Pace;
illuminati dalla fede siamo tuoi figli ed eredi.
santi perché tu sei Santo, liberi e senza malizia;
fortificati dalla carità ci amiamo di vero cuore.
Pietre viventi e preziose poste sulla pietra angolare,
veniamo costruiti dallo Spirito
per formare il tempio di Dio.
Ci siamo accostati al Pastore
che guida le anime nostre;
seguiamo le orme di Cristo
nel perdono e nella pazienza;
Fra le persecuzioni del mondo
e le consolazioni di Dio
viviamo come fratelli, portando coraggio e speranza.
Secondo la grazia che hai dato viviamo in santa letizia
benedicendo chi ci insulta e dando pace a chi ci incontra.
Il nostro futuro é la gloria, la luce del sole dall’Alto
che splende nel cuore dei poveri e dona pace a ogni uomo.
Prima lettera di san Paolo apostolo ai Calati (Gai 2,1-2.7-14)
Fratelli, dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito: vi andai però in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano. Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare. Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?».
Parola di Dio.
Come vivere questa Parola.
Un tratto di fragilità colto in colui a cui Gesù aveva affidato il compito di “confermare i fratelli”, assicurandogli la sua assistenza: “Ho pregato per te”. Un’ulteriore prova che nessuno è confermato in grazia e che bisogna vigilare continuamente perché l’uomo vecchio tende sempre a far capolino. Le esigenze della vita cristiana si contrappongono all’andazzo delle masse, oggi come ieri, ed essere segno di contraddizione è scomodo. La tentazione di nascondersi dietro modi di fare e di dire che vanno per la maggiore, può insinuarsi spingendo alla simulazione o al silenzio, facilmente interpretato come consenso, condivisione. E il “vino delle nozze” torna ad essere acqua insipida, il “sale” diviene buono solo per essere calpestato, perché incapace di ridare gusto e senso alla vita. Un atteggiamento che si vorrebbe minimizzare, si rivela così un vero e proprio tradimento dell’essere cristiano, una contro testimonianza che crea confusione. Il “guai a me se non evangelizzassi”, di Paolo, dovrebbe non lasciarci in pace e spingerci ad uscire allo scoperto, assumendoci in pieno la responsabilità di tenere accesa ed alta la luce da cui noi stessi siamo stati illuminati e che ora è affidata alle nostre mani, perché il mondo creda e credendo si salvi.
Tanto per restare in tema:
Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue
passioni.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati (Gal 5,18-25)
Fratelli, se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la
legge. Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione,
impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia,
gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose
del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi
le compie non erediterà il regno di Dio.
Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose
non c’è legge.
Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le
sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito,
camminiamo anche secondo lo Spirito.
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“L’Osservatore Romano”
Quotidiano Città Vaticano
Il Vangelo sempre e dovunque
Lettera Apostolica
in forma di Motu Proprio
Ubicumque et semper
del Sommo Pontefice
Benedetto XVI
con la quale si istituisce il Pontificio Consiglio
per la Promozione della Nuova Evangelizzazione
13 Ottobre 2010
Fonte come da titolazione, rilevato da Ciani Vittorio x l’Ufficio Documentazione Diocesi Piacenza-Bobbio.
Benedetto XVI
La Chiesa ha il dovere di annunciare sempre e dovunque il Vangelo di Gesù Cristo. Egli, il primo e supremo evangelizzatore, nel giorno della sua ascensione al Padre comandò agli Apostoli: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20). Fedele a questo comando la Chiesa, popolo che Dio si è acquistato affinché proclami le sue ammirevoli opere (cfr. 1 Pt 2, 9), dal giorno di Pentecoste in cui ha ricevuto in dono lo Spirito Santo (cfr. At 2, 14), non si è mai stancata di far conoscere al mondo intero la bellezza del Vangelo, annunciando Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, lo stesso “ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8), che con la sua morte e risurrezione ha attuato la salvezza, portando a compimento la promessa antica. Pertanto, la missione evangelizzatrice, continuazione dell’opera voluta dal Signore Gesù, è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, espressione della sua stessa natura.
Tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici. Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo. Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo. Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all’ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli. Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell’uomo. E se da un lato l’umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cfr. 1 Pt 3, 15), dall’altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale.
Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose.
Già il Concilio Ecumenico Vaticano II assunse tra le tematiche centrali la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo. Sulla scia dell’insegnamento conciliare, i miei Predecessori hanno poi ulteriormente riflettuto sulla necessità di trovare adeguate forme per consentire ai nostri contemporanei di udire ancora la Parola viva ed eterna del Signore.
Con lungimiranza il Servo di Dio Paolo vi osservava che l’impegno dell’evangelizzazione “si dimostra ugualmente sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri” (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, n. 52). E, con il pensiero rivolto ai lontani dalla fede, aggiungeva che l’azione evangelizzatrice della Chiesa “deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo” (Ibid., n. 56). Il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo ii fece di questo impegnativo compito uno dei cardini del suo vasto Magistero, sintetizzando nel concetto di “nuova evangelizzazione”, che egli approfondì sistematicamente in numerosi interventi, il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione. Un compito che, se riguarda direttamente il suo modo di relazionarsi verso l’esterno, presuppone però, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da evangelizzata ad evangelizzatrice. Basti ricordare ciò che si affermava nell’Esortazione postsinodale Christifideles Laici: “Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come se Dio non esistesse”. Ora l’indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all’ateismo dichiarato. E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell’esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire. (…) In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni” (n. 34).
Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. Essa fa riferimento soprattutto alle Chiese di antica fondazione, che pure vivono realtà assai differenziate, a cui corrispondono bisogni diversi, che attendono impulsi di evangelizzazione diversi: in alcuni territori, infatti, pur nel progredire del fenomeno della secolarizzazione, la pratica cristiana manifesta ancora una buona vitalità e un profondo radicamento nell’animo di intere popolazioni; in altre regioni, invece, si nota una più chiara presa di distanza della società nel suo insieme dalla fede, con un tessuto ecclesiale più debole, anche se non privo di elementi di vivacità, che lo Spirito Santo non manca di suscitare; conosciamo poi, purtroppo, delle zone che appaiono pressoché completamente scristianizzate, in cui la luce della fede è affidata alla testimonianza di piccole comunità: queste terre, che avrebbero bisogno di un rinnovato primo annuncio del Vangelo, appaiono essere particolarmente refrattarie a molti aspetti del messaggio cristiano.
La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio.
Come ho avuto modo di affermare nella mia prima Enciclica Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1). Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l’inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita.
Pertanto, alla luce di queste riflessioni, dopo avere esaminato con cura ogni cosa e aver richiesto il parere di persone esperte, stabilisco e decreto quanto segue:
Art.1.
1. È costituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, quale Dicastero della Curia Romana, ai sensi della Costituzione apostolica Pastor bonus.
2. Il Consiglio persegue la propria finalità sia stimolando la riflessione sui temi della nuova evangelizzazione, sia individuando e promuovendo le forme e gli strumenti atti a realizzarla.
Art. 2.
L’azione del Consiglio, che si svolge in collaborazione con gli altri Dicasteri ed Organismi della Curia Romana, nel rispetto delle relative competenze, è al servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione.
Art. 3.
Tra i compiti specifici del Consiglio si segnalano:
1. approfondire il significato teologico e pastorale della nuova evangelizzazione;
2. promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l’attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione;
3. far conoscere e sostenere iniziative legate alla nuova evangelizzazione già in atto nelle diverse Chiese particolari e promuoverne la realizzazione di nuove, coinvolgendo attivamente anche le risorse presenti negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Apostolica, come pure nelle aggregazioni di fedeli e nelle nuove comunità;
4. studiare e favorire l’utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione;
5. promuovere l’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo.
Art. 4
1. Il Consiglio è retto da un Arcivescovo Presidente, coadiuvato da un Segretario, da un Sotto-Segretario e da un congruo numero di Officiali, secondo le norme stabilite dalla Costituzione apostolica Pastor bonus e dal Regolamento Generale della Curia Romana.
2. Il Consiglio ha propri Membri e può disporre di propri Consultori.
Tutto ciò che è stato deliberato con il presente Motu proprio, ordino che abbia pieno e stabile valore, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione nel quotidiano “L’Osservatore Romano” e che entri in vigore il giorno della promulgazione.
Dato a Castel Gandolfo, il giorno 21 settembre 2010, Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, anno sesto di Pontificato.
BENEDETTO PP. XVI
(©L’Osservatore Romano – 13 ottobre 2010)
Quest’anno la Chiesa sottopone all’attenzione dei fedeli, lo “studio” degli Atti degli Apostoli. Mi sono detto: “Poichè gli Atti verranno sviscerti molto ma molto sapientemente dai Padri, perchè non leggere tra le righe gli Atti stessi e cpire un po’ di più della vita di San Paolo?
Quindi, nella mia perfetta ignoranza, leggo e crivo: ” . . . . . ma, in effetti, chi era San Paolo?”.
Era nato a Tarso nella Cilicia fra il 5 ed il 10 d.C. da genitori ebrei, farisei ellenizzati.
Dopo aver studiato a Gerusalemme alla scuola di Gamaliele, venne inviato a Damasco, su incarico del Sommo sacerdote, per “riportare ordine”, sembra, in una comunità ebraica che riconosceva Gesù come Messia. Secondo altri, invece, il viaggio a Damasco sarebbe stato una sua niziativa personale.
Stante la prima variante, la delicatezza dell’incarico fa capire le capacità che erano state individuate nel giovane Saul. Il compito, infatti, era critico; quasi una repressione poliziesca.
Fin da giovane, Paolo, si era dimostrato profondamente motivato, ricco di enorme energia. Si era messo in mostra come persecutore dei cristiani, aveva approvato la lapidazione di Stefano e vi aveva assistito di persona.
Durante il viaggio a Damasco, però: << All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saul, Saul, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. E la voce: “Io sono Gesù che tu perseguiti. Alzati ed entra nella città e ti verrà detto ciò che devi fare”. Tanto è il bagliore di quella luce che Saul, resta privo della vista fino a quando un discepolo di Gesù, Anania, non gli impone le mani facendogli riacquistare la vista.
Il fatto viene riferito per ben tre volte negli atti degli apostoli, ma stranamente appena lo accenna nelle sue lettere lo stesso Paolo.
Poiché arriva a Damasco con la nomea di persecutore dei seguaci di Cristo, giustamente, costoro diffidano di lui e lo rimandano a Tarso, dove lo troviamo intento a studiare e meditare.
Ma, la domanda viene spontanea a questo punto, chi è stato Paolo di Tarso?
Risposta spontanea, stante le letture e gli scritti su di lui: Un uomo dalle indiscutibili capacità dell’azione rivoluzionaria che lo fece diventare, lui ultimo arrivato, il primo fra tutti. Colui che è stato definito e chiamato, giustamente “Apostolo dei gentili”, ossia dei pagani, capace di estendere la predicazione della parola e delle opere di Gesù, al di fuori della comunità ebraica. Qualche storico lo ha definito, addirittura “il vero fondatore del cristianesimo”.
Gli altri Apostoli, con Pietro in testa, intanto, continuano la loro opera di predicazione.
Anche Pietro aveva avuto una visione, durante la quale era stato autorizzato a rompere il divieto mosaico, anche sul cibo. Infatti, in questi giorni Pietro compie un gesto audace, per i tempi; accetta l’invito a pranzo a casa di n centurione romano. Per un ebreo osservante, sedersi a tavola con un pagano, voleva dire mangiare cibo impuro.
Interpretando in “senso lato” la visione, Pietro ne deduce l’autorizzazione a frequentare anche i pagani.
L’episodio che figura negli Atti degli Apostoli, da a Pietro una specie di primogenitura sulla predicazione fuori dalla cerchia ebraica. Può sembrare una specie di precedente che gli viene attribuito, per legittimare l’azione svolta, con la consueta energia, da Paolo.
Sul punto è stata aperta e lo è ancora, una vivace discussione, tra gli studiosi della materia, di non facile svolgimento.
La cosa certa è il dissidio che si crea tra gli ebrei che volevano mantenersi fedeli al precetto mosaico e quelli che, invece, vedevano con favore un’adesione a questa nuova corrente per la quale Paolo prometteva novità non solo sul cibo ma anche sull’abolizione della circoncisione, da lui dichiarata non necessaria per i convertiti.
Paolo era dotato di grande energia fisica ed intellettuale, ma anche, a quel che si legge, di un temperamento collerico; la combinazione di questi elementi contribuì a rendere più aspra la disputa su che cosa fosse più necessario per la salvezza: l’osservanza della legge mosaica o la fede in Gesù Cristo?
Apparentemente, Pietro era d’accordo con Paolo sulla prevalenza della fede. Cedendo, forse, alle pressioni di “qualcuno”, Pietro, aveva cominciato ad attenersi alle vecchie regole.
Nella lettera ai Galati, Paolo, entra in azione con la più grande determinazione, per riportare “sulla retta via”, quanti avevano travisato la sua predicazione.
Anche se non lo dice con chiarezza, Paolo, fa intendere che Pietro non aveva rispettato l’accordo di Gerusalemme che lasciava a lui l’esclusiva della conversione dei gentili non circoncisi. Ma lo si può facilmente dedurre da quanto gli studiosi del settore fanno notare che, dopo l’assemblea di Gerusalemme e l’acceso litigio che ne seguì, Pietro non figura più negli atti degli Apostoli.
Il seguito è dedicato, quasi tutto, a Paolo.
Caro Conte Verde,
grazie per le bellissime considerazioni.
Oggi, 14 Settembre, festa dell’esaltazione della Santa Croce:
MISSALE ROMANUM VETUS ORDO
LETTURE: Nm 21, 4b-9; Sal 77; Fil 2, 6-11; Gv 3, 13-17
Gli Orientali oggi celebrano la Croce con una solennità paragonabile a quella della Pasqua. Costantino aveva fatto costruire a Gerusalemme una basilica sul Golgota e un’altra sul Sepolcro di Cristo Risorto. La dedicazione di queste basiliche avvenne il 13 settembre dei 335. Il giorno seguente si richiamava il popolo al significato profondo delle due chiese, mostrando ciò che restava del legno della Croce del Salvatore. Da quest’uso ebbe origine la celebrazione del 14 settembre. A questo anniversario si aggiunse poi il ricordo della vittoria di Eraclio sui Persiani (628), ai quali l’imperatore strappò le reliquie della Croce, che furono solennemente riportate a Gerusalemme. Da allora la Chiesa celebra in questo giorno il trionfo della Croce che è segno e strumento della nostra salvezza. «Nell’albero della Croce tu (o Dio) hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall’albero traeva vittoria, dall’albero venisse sconfitto, per Cristo nostro Signore» (prefazio).
L’uso liturgico che vuole la Croce presso l’altare quando si celebra la Messa, rappresenta un richiamo alla figura biblica del serpente di rame che Mosè innalzò nel deserto: guardandolo gli Ebrei, morsicati dai serpenti erano guariti. Giovanni nel racconto della Passione dovette aver presente il profondo simbolismo di questo avvenimento dell’Esodo (cf prima lettura), e la profezia di Zaccaria, quando scrive: «Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto» (Zc 12,10; Gv 19,37).
Il simbolo della croce ha sacralizzato per secoli ogni angolo della terra e ogni manifestazione sociale e privata. Oggi rischia di essere spazzato via o peggio strumentalizzato da una moda consumistica. Tuttavia rimane sempre un simbolo che fa volgere lo sguardo a tutti i «crocifissi» di sempre: i poveri, gli ammalati, i vecchi, gli sfruttati, i bambini subnormali, ecc. Essi sono i più degni di essere collocati nel «vivo» delle nostre messe. A noi, figli del «benessere», verrà la salvezza tramite loro, per i quali è sempre valida la parola del Vangelo: «Avevo fame… avevo sete… ero forestiero… ero nudo… ero malato…» (Mt 25).
La croce è gloria ed esaltazione di Cristo
Dai «Discorsi» di sant’Andrea di Creta, vescovo
(Disc. 10 sull’Esaltazione della santa croce; PG 97, 1018-1019. 1022-1023).
Noi celebriamo la festa della santa croce, per mezzo della quale sono state cacciate le tenebre ed è ritornata la luce. Celebriamo la festa della santa croce, e così, insieme al Crocifisso, veniamo innalzati e sublimati anche noi. Infatti ci distacchiamo dalla terra del peccato e saliamo verso le altezze. E’ tale e tanta la ricchezza della croce che chi la possiede ha un vero tesoro. E la chiamo giustamente così, perché di nome e di fatto è il più prezioso di tutti i beni. E’ in essa che risiede tutta la nostra salvezza. Essa è il mezzo e la via per il ritorno allo stato originale.
Se infatti non ci fosse la croce, non ci sarebbe nemmeno Cristo crocifisso. Se non ci fosse la croce, la Vita non sarebbe stata affissa al legno. Se poi la Vita non fosse stata inchiodata al legno, dal suo fianco non sarebbero sgorgate quelle sorgenti di immortalità, sangue e acqua, che purificano il mondo. La sentenza di condanna scritta per il nostro peccato non sarebbe stata lacerata, noi non avremmo avuto la libertà, non potremmo godere dell’albero della vita, il paradiso non sarebbe stato aperto per noi. Se non ci fosse la croce, la morte non sarebbe stata vinta, l’inferno non sarebbe stato spogliato.
E’ dunque la croce una risorsa veramente stupenda e impareggiabile, perché, per suo mezzo, abbiamo conseguito molti beni, tanto più numerosi quanto più grande ne è il merito, dovuto però in massima parte ai miracoli e alla passione del Cristo. E’ preziosa poi la croce perché è insieme patibolo e trofeo di Dio. Patibolo per la sua volontaria morte su di essa. Trofeo perché con essa fu vinto il diavolo e col diavolo fu sconfitta la morte. Inoltre la potenza dell’inferno venne fiaccata, e così la croce è diventata la salvezza comune di tutto l’universo.
La croce è gloria di Cristo, esaltazione di Cristo. La croce è il calice prezioso e inestimabile che raccoglie tutte le sofferenze di Cristo, è la sintesi completa della sua passione. Per convincerti che la croce è la gloria di Cristo, senti quello che egli dice: «Ora il figlio dell’uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui, e lo glorificherà subito» (Gv 13, 31-32).
E di nuovo: «Glorificami, Padre, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17, 5). E ancor: «Padre glorifica il tuo nome. Venne dunque una voce dal cielo: L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò» (Gv 12, 28), per indicare quella glorificazione che fu conseguita allora sulla croce. Che poi la croce sia anche esaltazione di Cristo.
La delusione più cocente viene dai Padri Passionisti i quali certamente non invogliano ad interventi atti ad aiutare a fare meglio.
Spero e confido, invece, nella preparazione di alcuni professionisti marinoti per movimentare culturalmente il sito.
Il luogo, oggetto degli interventi, d’altra parte, appartiene a tutti noi.
Sveglia, dunque.
Ciaooooooo e. . . . . Auguri di Buon Natale e Felice Anno nuovo, a tutti. A quelli di buona volontà ed anche a quelli che di volontà ne hanno ma…….. cattiva.
Conte Verde I
Mi ero illuso che gli abitanti di Cirò Marina avrebbero preso la parola e si sarebbero fatti sentire (leggere).
Così non è stato e non è.
Che bisogna fare per scuotere l’apatia atavica dei marinoti ?
… che dire se non grazie al più dotto dei nostri utenti 🙂
In apertura devo sommessamente chiedere perdono per le inesattezze scritte in precedenza, avendole scritte di getto, senza consultare i miei scritti ed i miei appunti. Cerco, ora, di rimediare scrivendo del Colle d’Itria con la dovuta umiltà.
Spesso mi è capitato di seguire delle tracce di qualche valore storico ma, di aver dovuto abbandonare le ricerche per i grandi ostacoli costituiti dalla realtà geografica ma, principalmente per le reticenze delle popolazioni alle quali mi rivolgevo.
Sciolgo la riserva, quindi e, prima correggo e poi, continuo quello che mi sono prefissato.
Dicevo e sostengo che l’attuale Santuario non è stato edificato sui ruderi di una preesistente Chiesa, attribuita ai monaci basiliani.
Andiamo per ordine.
L’indagine storica, artistica e letteraria non rende giustizia alle reali dimensioni e alla giusta fisionomia del monachesimo nelle nostre zone. E’ lacunosa ed a volte ammantata da leggenda (vedi in ritrovamento del quadro della Madonna).
Il monachesimo greco (tali erano i monaci chiamati erroneamente basiliani) è passato dalla sua vita trogloditica, umile, nascosta e randagia (a causa dell’iconoclastia), a forme di vita collettiva ed organizzata.
Si è in errore se si vuol far credere che già ai tempi in cui viveva S. Nilo da Rossano sulla collina dell’Alice esisteva una qualche forma di comunità.
I basiliani, con l’avvento dei Normanni, conobbero, in un primo tempo l’azione eversiva diretta a sgretolare l’organizzazione ecclesiastica greca, stroncando l’ingerenza dell’Impero d’Oriente. Tale opera, i Normanni, ritennero meritoria, in virtù dell’investitura papale concessa sui territori conquistati e da conquistare ( E. Pontieri, I Normanni dell’Italia Meridionale).
Salta agli occhi di chi legge le varie opere scritte in merito che non si faccia mai, dico e ripeto mai, mensione della collina d’Itria (Alice). Per mia sola memoria ne cito alcune: Rodotà, Sulle origini del rito greco . . .secondo il quale i conventi sarebbero stati 400; A. Calceopulos
nel suo ” Liber visitationis” asserisce di averne visitati 80; D. Raschillà, Saggio storico sul monachesimo in Calabria; G. Minasi, Le Chiese di Calabria.
Senza tralasciare gli scritti e le ricerche di P. Orsi, Le Chiese basiliane in Callabria. P. Orsi ha svolto molta della sua opera in Cirò, Frazione Marina, dove ha rinvenuto moltissimo materiale storico.
La sagacia del Normanni avvertì subito la potente leva sociale esercitata dal monachesimo basiliano sulle popolazioni. La situazione interna, quindi, consigliava agli Altavilla grande prudenza. Anche il Papa, d’altra parte, dopo aver manifestato intolleranza verso il clero greco, a seguito dello scisma del 1054, riservò un trattamento amichevole ai monaci italo-greci.
Fu grazie alle generose elargizioni degli Altavilla che i basiliani furono in grado di realizzare grandi abbazie in sostituzione delle costruzioni trogloditiche che si rivelavano insufficienti.
Niente e nessuno, alla luce di quanto detto,può asserire che anche la collina dell’Itria fu sede di monaci basiliani. Tranne che non voglia fare un falso storico.
E’ vero, però, che nell’anno 1115, nel mese di giugno, ad ind. IX, Riccardo Siniscalco, figlio del Conte Drogone (ecco l’errore scritto in precedenza) dona al venerabile abate Guglielmo del S. Salvatore del Monte Tabor, alcune terre tra le quali: ” . . . . .montem totum, in quo situm fuit castrum Licie . . . . .”. Castrum, non Ecclesiam.
Castrum fa supporre un luogo fortificato non certo per l’accoglimento di gente dedita alla preghiera.
Erroneamente, ritengo, a Riccardo viene dato come cognome, Siniscalco. Il Siniscalco era un grado elevato della gerarchia amministrativa e militare. Chiarisce meglio, poi, il corpo dell’atto stesso dove viene riportato: “. . . . .ego Richardus, senescallus . . . .” con lettera minuscola.
E’ da quella data, quindi, che devesi partire per stabilire una certa data del Colle d’Istria.
La storia di oggi è conosciuta. Sulla collina è stato edificato un convento dei PP. Passionisti con annessa Chiesetta elevata a Santuario dall’allora Vescovo di Crotone e Cariati, Mons. G. Agostino.
Per saperne di più è bene andare a leggere la vita di S.Ecc. Mons. R. Fagiano.
Per notizia e solo per notizia, aggiungo: In data 27 Dic. 1444 ” in castris prope civitatem Cotroni” l’aragonese Re Alfonso (tralascio volutamente gli altri 13 titoli) su richiesta, istituisce ilmerceto di Santa Croce: ” . . . . concedere loro la dicta Magesta (Maestà) ayano uno mercato franco sub titulo Sancte Crucis in Aligia pro octo (per 8 giorni) di alli tre di mayo. . . .”
Credo di essere stato esauriente e di non aver commesso, questa volta, errori. Qualora ce ne fossero, chiedo anticipatamente scusa.
Conte Verde.
Caro Conte Verde I, grazie per le precisazioni. Sappiamo che il contributo degli utenti (magari del luogo) per stabilire la verità su un santuario è fondamentale. Aspettiamo con piacere altri tuoi interventi che sono così ben descritti e colti.
Sulla storia del Santuario dei PP. Passionisti, in Cirò Marina (Kr), meglio conosciuto con il nome di “Santuario Madonna d’itria”, si raccontano tali e tante fandonie da fare accapponare la pelle a chi ne sa appena un po’.
Ebbene, il Santuario non fu eretto su un vecchio monastero di monaci “basiliani” (nella didascalia sono detti monaci brasiliani), bensì costruito di sana pianta a seguito di donazione di certo Drogone, nipote del Guiscardo. Siano, quindi nell’anno del Signore 1115.
I monaci basiliani (non brasiliani) avevano già abbandonato le nostre terre, dopo averle elevate con le loro opere ed il loro lavoro manuale, a seguito di un accordo tra l’allora Papa Pasquale II ed i normanni che avevavo conquistato il Meridione. Accordo che prevedeva l’eliminazione soft del rito greco ed introdurre il rito romano/latino, nella Chiesa.
Drogone fece donazione ai monaci di San Salvatore del Monte Tabor, oltre che della collina dell’ Alikia anche della pianura sottostante e della “fossa” di mare antistante il Capo Alikia.
Altro ed altro ancora ci sarebbe da scrivere e da commentare, nonchè sfatare. La diceria secondo la quale i Templari abitarono e costruirono la fortificazione sulla collina del Santuario . . . . . . . .
Con riserva di intervenire ancora.
Conte verde.