Le tele della chiesa dei Domenicani presso la Pinacoteca Diocesana di Rieti
Sconciate dai colpi delle baionette del Regio Esercito, le grandi tele del Concioli furono a malapena sottratte al definitivo degrado e depositate presso la Curia.
L’allestimento della Pinacoteca Diocesana in anni recenti le ha definitivamente valorizzate, riproponendole all’apprezzamento dei visitatori e facendone una testimonianza saliente di un periodo cruciale della storia nazionale.
Le due tele, dalle identiche dimensioni, erano destinate a decorare le pareti laterali dell’abside della chiesa di San Domenico, dalle sobrie forme ortogonali, un tempo illuminata da una fastosa vetrata.
L’incarico conferito il 18 ottobre 1788 dal priore del convento di San Domenico p. Vincenzo M. Scalmazzi fu onorato dal Concioli entro il 1791.
Certo i motivi – la canonizzazione di San Domenico e l’apparizione di Cristo agli Apostoli – furono suggeriti all’artista dalla comunità dei Padri Predicatori, tradizionalmente attenta alla scelta dei temi dell’iconografia a sostegno della sua incessante opera di evangelizzazione e catechesi, ma il Concioli aderì con sagace entusiasmo alla richiesta, facendone propria l’ispirazione.
Il tema della Canonizzazione di San Domenico fu dettato da una memoria storica di particolare rilevanza per la comunità domenicana reatina: qui, infatti, dopo il breve ma esaustivo processo voluto da papa Gregorio IX si compì la cerimonia dell’elevazione alla gloria dell’altare del fondatore dell’Ordine dei Predicatori, in una data che va dal 29 giugno, festività dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, al 2 luglio 1234.
Un giorno più tardi, il 3 luglio, fu infatti emessa dalla cancelleria pontificia presso la corte reatina la bolla Fons sapientiae, verbum Patris, conservata presso la Curia Generalizia dell’Ordine dei Predicatori a Bologna.
Papa Gregorio, che aveva personalmente conosciuto ed apprezzato l’opera dei fondatori degli Ordini Mendicanti, Domenico di Guzman e Francesco d’Assisi, fu fautore della rapida conclusione del processo di canonizzazione.
La solenne consacrazione del nuovo Santo della Chiesa militante avvenne in cattedrale, certo in un’atmosfera festosa e commossa, alla presenza del maestro generale dell’Ordine frate Giordano di Sassonia5 e del penitenziere pontificio frate Raimondo di Peñyafort6.
L’evento storico viene attualizzato dall’artista che rappresenta la scena della canonizzazione così come è definita liturgicamente nella prassi post tridentina, e per di più dispone il trono del Pontefice, i canonici, i diaconi, il gruppo dei Domenicani, gli armigeri entro uno spazio ben noto e riconoscibile per i reatini di fine Settecento: proprio la sala delle udienze papali in cui oggi i due dipinti di Antonio Concioli sono stati definitivamente collocati.
Si tratta, con tutta evidenza, di un anacronismo, dal momento che il palatium Domini Papae fu progettato ed eretto dall’architetto Andrea magister fra il 1283 e il 1288: ma l’adesione storicistica ai fatti non sempre può conciliarsi con l’esigenza creativa che a volte, come in questo caso, interviene a legittimare l’espediente artistico.
Più libera e sbrigliata, ma pur sempre aderente con lindo rispetto ai canoni estetici dell’arte cristiana, la tela dedicata all’Apparizione di Cristo risorto agli Apostoli.
La scena si svolge su uno sfondo di genere, dal gusto vagamente neoclassico: Cristo si mostra ai suoi compagni, ancora addolorati e turbati dai drammatici avvenimenti della Pasqua, incerti del loro futuro.
Prima che Cristo ascenda al cielo e lo Spirito Santo li fortifichi, i vangeli registrano con scarse varianti alcuni episodi che infondono fiducia agli undici, a cui si aggiunge Mattia, esortandoli al compimento della loro missione.
Così il Risorto si mostra ai suoi, con il capo circonfuso da un nimbo di luce, i segni della passione impressi sul corpo atletico, che ha sconfitto per sempre la morte.
Gli apostoli, alcuni dei quali, come San Pietro, identificabili per i loro emblemi parlanti, sono colti nei gesti misurati ed intensi che manifestano la gamma dei loro sentimenti, dall’incredulità allo stupore, dalla pietà all’adorazione.
È evidente che ci troviamo al cospetto dell’opera di un maestro, abile interprete del gusto del suo tempo, capace di coniugare le calde luminescenze della pittura emiliana apprezzate ed apprese in gioventù con il gusto narrativo, storicistico, non esente dall’interesse encomiastico, che sta rapidamente montando anche all’interno dei confini dello Stato della Chiesa.
La sua opera conferma gli assunti da cui questa breve rassegna si è mossa: la cultura figurativa marchigiana ha gettato nel corso dei secoli un solido ponte, ha rappresentato un ineludibile momento dialettico di cui conservano testimonianza anche i centri minori, come è nel caso di Rieti e del suo territorio diocesano.
Ileana Tozzi